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Il corpo e la carne ineluttabili antinomie dell'esistenza

(per Maria Tripoli a cura di Sergio Collura)

Le forme che si stagliano ora nette e decise, ora assorbite nell’oscurità della luce, ora dirompenti in eccessi di colore sono la metafora delle tante strade che un artista inquieta, come Maria Tripoli, intraprende per giungere al sé e all’altro da sé e scoprire la propria aseità.

Esse rappresentano quel percorso simbolico, patrimonio comune dell’esperienza umana, che è il “viaggio”: luogo dell’esistenza attinto nella contemporaneità del vissuto, scoperto nel suo attimo attraverso l’emozione e rivisitato attraverso la categoria della contraddizione come fonte ineludibile di conoscenza.

In una scelta volutamente accademica, dove l’arte classica vissuto come strumento interpretativo del reale, nella continua ricerca dell’armonia e della musicalità, di cui gli esseri sono fonte, (indipendentemente dal chi e dal come siano) viene rivisitata e scandita dall’artista senza pudori, attraverso temi endemici dell’io e della psiche quali la natura di sé, la carne, il corpo, l’eros, l’ossessione, l’amore, il mito, la parola.

E sembra che tra tante le vie percorribili, Maria Tripoli abbia scelto il corpo come metafora dello spirito e la carne non tanto come fonte di desiderio, bensì come provocazione di un desiderio sempre latente nel maschio prima, nell’uomo dopo, che diventa sfida, costrizione alla nudità (soprattutto mentale), rifiuto della morale tradizionale che identifica il bene con l’utile, e ricerca di nuove vie che tengono conto, bataillianamente, che il bene non è afferrabile se non nel luogo convenzionalmente attribuito al male.  La sua opera, dal periodo blu al periodo rosso, segna l’intera inclinazione dello spirito a deviare dalle forme morali stereotipate per affermare non solo la libertà del volere ma, soprattutto, al di là di ogni ipocrisia prudenziale, la libertà di esserci e di assomigliare solo a se stessi.

Cammino faticoso, certo, in cui l’essere nel ripiegarsi su se stesso percorrendo le vie dell’eros si apre all’altro e, a rischio della perdita della propria identità soggettiva, tenta con esso una comunicazione. Inizialmente si tratta di un semplice grido, un urlo della carne, un desiderio o un’attesa struggente del desiderio in cui ancora si sente tutto il peso della solitudine, ma poi, man mano che la nudità si ricompone nella corporeità e questa nella trasfigurazione di sé nella propria interiorità, superata ogni logica di giudizio, la comunicazione diviene rivelazione delle proprie contraddizioni, che segnano e significano la vita nell’atto necessitati della scelta, per cui è finalmente possibile riconoscere in se stessi, nella condivisione reciproca con l’altro, al di là di ogni timore, la ragione della propria e comune esistenza.

E’ la materia sensibile - materia inerte e carne, scrive Weil – il vaglio del reale nel pensiero: è la carne che lavora la materia, e vi aderisce fino a diventare essa stessa materia docile. E la Tripoli sembra obbedire a tale dettato.
Ma la centralità dell’opera la cogliamo nel desiderio, che diventa ricerca, scandaglio dell’anima, tensione amorosa e istanza di infinito.

 

Grazie alla finitudine della carne, nella durata del tempo e nella estensione dello spazio, il desiderio diviene l’io emozionale del mondo, ma diviene pure il perché dal quale tutto ha origine, la gioia e il dolore, la vita e la morte, l’immanente e il trascendente.

Esso è il filtro attraverso il quale il corpo in cui s’incarna diviene materia passiva, carne obbediente e sperimenta la divisione da sé, l’incessante alterazione della propria autosufficienza, la fragilità come categoria del proprio essere, come forza diveniente, come attesa dell’evento che muta o può mutare radicalmente la vita.

Disperso in frammenti attraverso lo spazio e la materia, il desiderio, ritrova la sua unità delle antinomie dell’eros e vive nella carne il risveglio all’intimità, la rielaborazione del dualismo tra spirito e materia, lo svelamento della propria interiorità.

Ecco perché alcuni eventi fondamentali della vita, tra cui quello dell’abbandono, che ci richiama inesorabilmente il binomio amore-morte, sono destinati a restare sempre ai margini della propria consapevolezza. Corpo e carne, allora multiformi policromie dell’essere, causa ed essenza di continue metamorfosi, di slanci di creatività pensata, sembrano coesistere nella mutevole plasticità delle forme, anche quando l’immagine si fa staticità inafferrabile, perché trova nell’attimo, in quella parte di tempo senza tempo, cioè, la sua progettualità infinita. E’ come se l’artista cogliendo la potenzialità illimitata di ogni accadimento dell’anima non trovi altro modo di raffigurarla se non piegando l’intenzione narrativa dell’inesprimibile, al paradosso inquietante di una inarrestabile continua genesi.

In una sequenza talora delirante di immagini, laddove la carnalità prorompe maestosa fino a giungere là dove è meglio non vedere per non morire, Maria Tripoli, nuda come i suoi nudi, palesa una sensibilità che talora sfocia in un graffiante surrealismo, dove tutto è tenuto da uno stile ed un’accuratezza formale non disgiunta da una chiarezza di pensiero che ostinatamente, in una sensitiva espressione  del dramma vitale, conclude nel grido dell’esistenza.

Pittura che, talvolta violentemente, travolge tutti i sensi, fino a sacralizzare quell’istinto cosmico che pone il corpo misterico della donna al centro di un rito infinito di bellezza e di piacere. Ed è quest’ultimo a dominare insieme con il dolore, entrambi esaltati e celebrati nella donazione e nell’abbandono, nella speranza e nella delusione.

Nelle sue opere, infatti, colpisce questo travaglio intimo, giocato sul piano della sensualità femminile; e colpisce soprattutto il disinvolto utilizzo di un linguaggio poetico fatto di sfumature e assonanze, di un estetismo talora crudo, talora delicato, che nella ricchezza dei toni, dei chiaro-scuro, o in una girandola di colori accesi, sottolinea la dirompente forza della parola silenziosa che si cela e diviene – ora attraverso l’intensità dello sguardo, ora attraverso la compenetrazione del mistero del sé – incontro e attesa, narrazione a-temporale di sé e vissuto storico.

Infine contrariamente a quanto accade in molti artisti, (rischiando, ormai, reiteranti luoghi comuni), non vi è nella Tripoli, una rivolta contro la civiltà moderna, ritenuta responsabile della negazione dell’uomo, della perdita dei valori tradizionalmente ereditati; vi è invece la percezione che se un male di vivere esiste, appartiene ad ogni stagione della storia ed è possibile narrarlo anche fuori dall’enfasi del dramma, basta talvolta quel tanto di ironia che sdrammatizzi l’evento, pur non sottovalutandolo (vedi per esempio le opere che appartengono al periodo rosso).

Vi è invece la convinzione che in ogni stagione della storia l’uomo è sempre vigile  e presente, con la sua interiorità, fissando il suo sguardo nell’oltre. E così l’arte non fa più soltanto sentire, ascoltare, intravedere i mondi del possibile, ma li inserisce nel sentire-vedere, nel partecipare-costruire.

 


Sergio Collura

 

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